NOVITA’ DALLA LETTERATURA – A cura di: dr. Giuseppe Trisolino

Strategia invasiva o conservativa iniziale per la malattia coronarica stabile?

Giuseppe Trisolino Spec. Cardiologia, Segretario Regionale ANCE Emilia Romagna

La cardiopatia ischemica è la principale causa di morte e disabilità in tutto il mondo. Gli obiettivi del trattamento dei pazienti con malattia coronarica stabile (CAD) mira alla riduzione del rischio di morte e degli eventi ischemici e al miglioramento della qualità di vita. Per raggiungere questi obiettivi, i pazienti con malattia coronarica devono essere trattati con terapia medica ottimale (OMT) come indicato dalle attuali linee guida. [(1) Da anni si discute se la rivascolarizzazione miocardica, in aggiunta alla OMT, aggiunge ulteriori vantaggi in termini di riduzione di mortalità cardiovascolare. Prima della disponibilità di stent a rilascio di farmaco, gli studi che hanno testato l’effetto della rivascolarizzazione in aggiunta alla terapia medica, non hanno mostrato una riduzione dell’incidenza di morte o infarto del miocardio. [2] In uno studio osservazionale che ha coinvolto oltre 10.000 pazienti, l’incidenza di morte da cause cardiache era stata inferiore nel gruppo di pazienti, con almeno il 10 % di ischemia documentata all’imaging di perfusione, sottoposti a rivascolarizzazione rispetto a quelli in sola terapia medica. [3] Lo studio ISCHEMIA (International Study of Comparative Health Effectiveness with Medical and Invasive Approache) [4] è stato progettato per rispondere alle domande fondamentali lasciate aperte nel 2007 dal trial COURAGE, [5] che non aveva rilevato alcun beneficio dalla rivascolarizzazione, rispetto all’OMT, nella CAD stabile. L’obbiettivo dell’ISCHEMIA era quello di determinare la migliore strategia di gestione dei pazienti ad alto rischio con malattia coronarica stabile. E’ uno studio multicentrico, randomizzato, in cui 5179 pazienti, con ischemia moderata-severa, in base allo stress imaging o al test da sforzo, e frazione eiezione conservata, sono stati randomizzati a un’iniziale strategia invasiva (angiografia e rivascolarizzazione quando possibile) e terapia medica o ad una strategia conservativa iniziale con OPT ed angiografia se la terapia medica falliva. Oltre il 50% dei pazienti aveva ischemia inducibile grave al basale, il 33% ischemia moderata, il 12% lieve. L’età media dei pazienti arruolata era di 64 anni, 23 % donne e 41% diabetici. I pazienti assegnati alla strategia invasiva dovevano sottoporsi ad angiografia entro 30 giorni dalla randomizzazione e, se possibile, a rivascolarizzazione completa di tutti i territori ischemici. La terapia medica consisteva in interventi farmacologici ottimali e particolare attenzione allo stile di vita. I pazienti sono stati seguiti a 1,5, 3, 6 e 12 mesi dopo la randomizzazione e successivamente ogni 6 mesi. Le caratteristiche di base dei pazienti erano ben bilanciate tra i due gruppi. Tra i pazienti nel gruppo con strategia invasiva, il 96% è stato sottoposto ad angiografia e il 79% è stato sottoposto rivascolarizzazione (PCI nel 74% e CABG nel 26%). Nel gruppo con strategia conservativa, il 26% dei pazienti è stato sottoposto ad angiografia e il 21% è stato sottoposto rivascolarizzazione; L’outcome primario era un composito di morte cardiovascolare, infarto del miocardio o ricovero per angina instabile, insufficienza cardiaca o arresto cardiaco rianimato. L’outcome secondario era un composito di morte da cause cardiovascolari o infarto del miocardio e qualità della vita correlata all’angina. La definizione primaria di infarto non procedurale era basata sulla terza definizione universale di infarto miocardico. (6) L’outcome primario di morte cardiovascolare, infarto del miocardio, arresto cardiaco rianimato o ricovero per angina instabile o insufficienza cardiaca a 3,3 anni di follow up medio si è verificato nel 13,3% del gruppo invasivo di routine rispetto al 15,5% del gruppo di terapia medica (p = 0,34). I risultati sono stati gli stessi in più sottogruppi. I risultati secondari hanno mostrato morte cardiovascolare o infarto del miocardio: 11,7% nel gruppo invasivo di routine rispetto al 13,9% nel gruppo di terapia medica (p = 0,21); morte per tutte le cause: 6,4% nel gruppo invasivo di routine vs 6,5% nel gruppo in OPT (p = 0,67); Infarto miocardico periprocedurale: invasivo/conservativo HR 2,98, IC 95% 1,87-4,74; Infarto miocardico spontaneo: invasivo/conservativo HR 0,67 95% 0,53-0,83. Le curve degli eventi fino a 5 anni hanno mostrato che la strategia conservativa ha avuto meno eventi cardiovascolari nei primi 2 anni, mentre la strategia invasiva ha tenuto il passo tra il 3° e il 5 ° anno. La differenza assoluta tra i gruppi in entrambi i periodi è stata approssimativamente simile, portando ad avere risultati equivalenti al follow-up finale. L’angiografia seguita da PCI o bypass aortocoronarico ha avuto il solo vantaggio, rispetto alle cure mediche, nel migliorare i sintomi dell’angina. Tra i pazienti con angina giornaliera o settimanale, la metà di essi trattati invasivamente era priva di angina a 1 anno, rispetto a solo il 20% nel gruppo OPT. In conclusione lo studio ha evidenziato che le procedure interventistiche non riducono il tasso complessivo di infarto o morte rispetto alle sole terapie mediche associate a cambiamenti nello stile di vita. La terapia invasiva di routine è stata associata, a 6 mesi, ad aumento degli infarti del miocardio periprocedurali e riduzione a 4 anni dell’infarto del miocardio spontaneo. Tuttavia, per chi presentava dolore toracico all’arruolamento, vale a dire circa due terzi dei pazienti arruolati nello studio, la rivascolarizzazione ha migliorato i sintomi e dunque la qualità della vita. Vi sono, però, alcune limitazioni nello studio che non escludono la potenziale superiorità della rivascolarizzazione rispetto alla sola terapia medica nei pazienti con specifici modelli anatomici di malattia coronarica. L’ISCHEMIA non ha arruolato, infatti, pazienti che avrebbero tratto benefici certi dalla rivascolarizzazione, come chi presentava malattia multi-vasale con funzione ventricolare sinistra compromessa (<35%), insufficienza cardiaca su base ischemica o angina instabile. Non trascurabile è, infine, il potenziale bias per l’uso, in circa 1/3 dei pazienti, del test da sforzo per la diagnosi di ischemia.

[1] Knuuti J et al. ESC guidelines for the diagnosis and management of chronic coronary syndromes. Eur Heart J 2020;41:407-77

[2] The BARI 2D Study Group. A randomized trial of therapies for type 2 diabetes and coronary artery disease. N Engl J Med 2009;360:2503-15

[3] Hachamovitch R. et al. Comparison of the short-term survival benefit associated with revascularization compared with medical therapy in patients with no prior coronary artery disease undergoing stress myocardial perfusion single photon emission computed tomography. Circulation 2003;107:2900-7

[4] Maron DJ et al. on behalf of the ISCHEMIA Research Group. Initial Invasive or Conservative Strategy for Stable Coronary Disease. N Engl J Med 2020;382:1395-407

[5] William E. Boden et al for the COURAGE Trial Research Group  Optimal Medical Therapy with or without PCI for Stable Coronary Disease  N Engl J Med 2007; 356:1503-1516  DOI: 10.1056/NEJMoa070829

[6] Thygesen K. et al. Third universal definition of myocardial infarction. J Am Coll Cardiol 2012;60: 1581-98

 

 

UPDATE cardiologia 2023

Gianluca Belletti

Responsabile Servizio di Cardiologia Unità Operativa Polispecialistica Ravenna 33

Questo è stato un anno di importanti novità, studi clinici, spunti di riflessione su tematiche che spaziano dalla cardiopatia ischemica, alle cardiomiopatie, alle valvulopatie, all’elettrofisiologia e sono state presentate al recente congresso europeo di Amsterdam nuove linee guida (diabete, sindrome coronarica acuta, endocardite infettiva, cardiomiopatie). Riguardo l’endocardite infettiva ad esempio, se non ci sono state novità (rispetto alle precedenti, in merito ai fattori di rischio cardiaci

(pregressa endocardite, valvulopatie, protesi valvolari, presenza di cateteri arteriosi o centrali) e non cardiaci (immunosoppressione, pazienti tossicodipendenti che si iniettano droghe, recenti procedure odontoiatiche o chirurgia, ospedalizzazioni o emodialisi), sono stati revisionati e schematizzati i criteri maggiori di diagnosi di laboratorio di endocardite quale il riscontro di lesioni valvolari, perivalvolari, periprotesiche (vegetazioni) mediante una delle seguenti metodiche di imaging (ecocardiogramma transtoracico, EcoTE, Tac cardiaca, Tac Pet). Una delle novità più importanti è sicuramente la possibilità di passare alla terapia endovena e orale a domicilio dopo 10 giorni di terapia endovena ospedaliera, previa esecuzione di ecocardiogramma transesofageo. Tale passaggio si può effettuare solo se il paziente è clinicamente stabile e se vi è a casa un’assistenza idonea. In merito al trattamento chirurgico, le nuove LG rimane in classe 1 A l’intervento in emergenza /urgenza dell’endocardite su valvola nativa o protesica con insufficienza valvolare acuta in caso di shock cardiogeno o edema polmonare. L’intervento chirurgico urgente è anche raccomandato (I B) in caso di infezioni non controllate ed in caso di endocarditi con vegetazioni persistenti più grandi di 10 mm, dopo 1 o più episodi embolici nonostante appropriata terapia antibiotica. Tema su cui si dibatte e mai completamente risolto è quello delle ostruzioni coronariche croniche, condizione che coinvolge fino al 10% degli infarti miocardici ST sopralivellato e fino al 18% delle coronarografie). Tale condizione impatta significativamente in negativo sulla prognosi fin da subito, come dimostra il registro, pubblicato quest’anno comprendente 12928 pazienti sottoposti a PTCA di ostruzioni croniche. I concetti che devono guidare la decisione di procedere a rivascolarizzazione sono la presenza di ischemia, la funzione sistolica del ventricolo sinistro e l’eventuale riduzione del rischio aritmico derivante dal ripristinare il flusso in quella determinata area miocardica. Gli studi randomizzati esistenti non hanno concluso nulla (verosimilmente perché studi con un numero di pazienti limitato, basso potere statistico e con alta percentuale di cross-over tra PTCA e terapia medica). In conclusione, la rivascolarizzazione di un’ostruzione cronica deve essere guidata dai sintomi e nel caso eseguita da operatori esperti. Altro argomento su cui in questo anno si è discusso molto è la consulenza cardiologica nella chirurgia non cardiaca. A partire dalle LG del 2022 è stata sottolineata l’importanza del calcolo del rischio di eventi cardiovascolari utilizzando una serie di scores: il più utilizzato dei quali è il Lee Cardiac risk score. Molto interessanti sono la possibilità di predire eventi cardiovascolari con l’esecuzione di coroTC prima di un intervento chirurgico, il valore prognostico di un incremento dei valori di troponina nel post-operatorio e gli effetti favorevoli di un trattamento personalizzato e potenziato dell’ipertensione arteriosa. Riguardo alla gestione della duplice terapia antiaggregante in paziente con recente IMA e stent, se vi è un alto rischio trombotico e/o è trascorso meno 1 mese dalla PTCA o meno di tre mesi dall’IMA (in presenza di alto rischio emorragico), se possibile si rinvia l’intervento chirurgico altrimenti le linee guida consentono l’impiego di cangrelor (inibitore P2Y12 endovena). A proposito di fibrillazione atriale quest’anno ci si è soffermati sull’inquadramento diagnostico che non può prescindere da una completa ed accurata ecocardiografia (speckle tracking ed eco 3 D) per definire anatomia, geometria e funzione dell’atrio e del ventricolo sinistro e per identificare le cause della fibrillazione atriale stessa. Ciò poiché i pazienti con ridotta funzione atriale sinistra hanno una più alta percentuale di fibrosi e rimodellamento, più alto rischio di eventi cardioembolici, più elevata possibilità di sviluppare fibrillazione atriale dopo un intervento cardiochirurgico e più elevata possibilità di recidiva dopo ablazione o cardioversione. Nelle linee guida del 2020, l’ablazione della fibrillazione atriale persistente o parossistica (paziente sintomatico) è in classe 2A, in classe I in caso di insuccesso della terapia medica, segni di scompenso cardiaco ed FE ridotta. Lo studio Castle-AF ha documentato un significativo vantaggio clinico dell’ablazione nei pazienti con scompenso cardiaco con riduzione sia dei ricoveri per peggioramento dello scompenso e che della mortalità per tutte le cause e sta per essere pubblicato su JACC uno studio su 2000 pazienti che mette in evidenza che i risultati, in termini prognostici, dell’ablazione si hanno se la stessa viene effettuata prima possibile entro i primi 3 anni dalla diagnosi. È stato sottolineato e confermato che è essenziale la profilassi degli eventi trombotici con terapia anticoagulante (preferibilmente NOAC) nei pazienti con fibrillazione atriale ed elevato rischio embolico, includendo anche il paziente anziano e fragile (come mostrano diversi registri, l’ultimo dei quali l ETNA-AF per edoxaban). La chiusura percutanea dell’auricola di sinistra è attualmente una procedura disponibile, consolidata e sicura in mani esperte, per ridurre il rischio di ictus nei pazienti con controindicazione alla terapia anticoagulante ad elevato rischio emorragico. È ormai riconosciuta la possibilità di identificare episodi più o meno prolungati di aritmie con dispositivi elettronici (tipo Apple Watch), capacità che in precedenza veniva riconosciuta solo ai device (PM e AICD). Tra le novità troviamo anche la definizione del rischio cardioembolico degli AHRE (episodi di tachiaritmia atriale con frequenza maggiore di 190/min); nel 2023 è stato pubblicato lo studio NOAH-AFNET 6 che ha randomizzato 2500 pazienti con AHRE ad edoxaban o placebo. Età media elevata, CHADS 2 VASC medio di 4, endpoint di stroke e morte cardiovascolare. Lo studio è stato interrotto prematuramente per futilità: nessuna differenza significativa riguardo gli endpoint primari e un trend di incremento dei sanguinamenti. Molto importanti le novità riguardanti lo scompenso cardiaco, in particolar modo lo scompenso cardiaco a frazione di eiezione preservata: confermata l’importanza della terapia con glifozine anche in questo gruppo di pazienti (lo studio EMPEROR-Preserved del 2021ha mostrato una riduzione significativa nei pz con FE > 40% dell’endpoint primario morte cardiovascolare ed ospedalizzazione per scompenso); analogia di risultati sulla stessa categoria di pazienti nello studio DELIVER del 2022 Le glifozine (empa e dapaglifozin) sono quindi state inserite in classe IA nell’update delle linee guida presentate all’ultimo congresso ESC ad Amsterdam) sia nei pazienti con scompenso cardiaco a funzione sistolica preservata che lievemente ridotta. È stato presentato lo studio Victoria (5000 pazienti NYHA II, III e IV con FE < 45% sull’uso del vericiguat vs placebo nei pazienti con scompenso in peggioramento (un episodio di riacutizzazione entro 3 mesi); il vericiguat, stimolatore diretto di cGMP, produce riduzione dello stress ossidativo e miglioramento endoteliare e vascolare a livello cardiaco e periferico; lo studio ha mostrato, a 10,8 mesi di FU medio, una significativa riduzione dell’endpoint primario (morte CV ed ospedalizzazione per scompenso). Nell’update linee guida del 2023 l’impiego di vericiguat è in classe 2 B. sono stati citati nell’armamentario terapeutico dello scompenso cardiaco avanzato anche il Patiromer (chelante del potassio: studio Diamond) per il trattamento dell’iperkaliemia nei pazienti con scompenso cardiaco a FE ridotta e la terapia con ferro endovena nei pazienti sintomatici con scompenso cardiaco ed FE ridotta per alleviare i sintomi e migliorare la qualità di vita (classe I A) e per ridurre il rischio di ospedalizzazione (classe 2a A). Le modalità di titolazione dei 4 capisaldi terapeutici dello scompenso cardiaco (ARNI, BB, SGLT2 ed MRA) sono state valutate nello studio Strong-HF (1078 pazienti con scompenso cardiaco acuto); la documentazione di maggiore efficacia della titolazione rapida ed intensiva ha portato ad una modifica delle linee guida in cui compare in classe I A una strategia di titolazione rapida ed intensiva dei farmaci prima della dimissione e nel primo follow-up che porti ad avere in terapia i 4 farmaci al massimo dosaggio tollerato in 6 settimane (senza peraltro un ordine fisso nell’iniziare uno o l’altro farmaco). Relativamente alla terapia ipolipemizzante è stata sottolineata l’importanza di  raggiungere prima possibile i target terapeutici di LDL; lo studio EPIC-STEMI ha mostrato che gli inibitori del PCS K9 permettono di raggiungere i livelli target di LDL nella maggior parte dei pazienti a rischio elevato (alirocumab 150 mg somministrato precocemente ha determinato una riduzione del 73% dei livelli di LDL). La strategia step-wise, per quanto razionale, è fortemente limitata nella sua efficacia da aspetti clinici, organizzativi e normativi; Occorre calcolare all’ingresso la distanza dal target (LDL basale- LDL target/LDL basale x 100) e utilizzare il fast-track alla dimissione in modo da garantire una maggiore probabilità di raggiungere i livelli raccomandati di LDL. Molto interessanti le novità introdotte dalle nuove linee guida ESC sulle cardiomiopatie. L’approccio metodologico basato sulla conoscenza e l’uso di red flags cardiache e non cardiache ha determinato un incremento di prevalenza delle cardiomiopatie rispetto a quanto si credeva in passato. La diagnosi eziologica è ormai imprescindibile perche’ la terapia specifica è disponibile in moltissime cardiomiopatie con considerevole impatto sulla prognosi. Viene stressata l’importanza del sospetto clinico (considerare l’ipotesi cardiomiopatia ipertrofica in caso di spessore ventricolare sinistro maggiore o uguale a 15 mm in qualsiasi segmento miocardico non spiegato solamente da condizioni di carico oppure uno spessore ventricolare sinistro di 13-14 mm associato a familiarità, genetica, anomalie ECG). Relativamente alla terapia della cardiomiopatia ipertrofica gli studi di fase III EXPLORER HCM e VALOR HCM hanno documentato gli effetti benefici di mavacanten (primo inibitore diretto della miosina cardiaca), già approvato dagli stati membri dell’unione europea. L’incidenza e prevalenza dell’amiloidosi (soprattutto nelle forme wild-tipe) sono state nettamente incrementate dall’uso di “red flags” (red flags clinici: tunnel carpale bilaterale, stenosi spinale lombare, disfunzione autonomica; red flags ECG: bassi potenziali e pattern tipo “pseudo infarto”, sproporzione tra ispessimento all’ecocardiogramma e bassi potenziali). Alla diagnostica di I livello seguono esami di II livello: RMN cardiaca, scintigrafia ossea e test ematologici per identificare il meccanismo etiopatogenetico. Relativamente alle possibilità terapeutiche oltre alla terapia già in uso (tafamidis, farmaco che stabilizza e blocca il tetramero responsabile della malattia) sono in corso studi con farmaci che sfruttano altri meccanismi d’azione (silenziatori del gene responsabile, oppure agenti che degradano le fibrille di amiloide). Tra questi ultimi il patisiran (acido ribonucleico che degrada specificamente il mRNA della transiretina), testato nello studio di fase 3 Apollo study con risultati promettenti (riduzione dello spessore del setto all’eco, miglioramento del GLS e del rilascio dei biomarkers).

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