NOVITA’ SUL RUOLO PROTETTIVO DELL’ATTIVITA’ FISICA
NEL TROMBOEMBOLISMO VENOSO: DONNE UOMINI
Dr.ssa Liuba Fusco, Specialista in Cardiologia (Bologna)
Dr.ssa Anna Pontarin, Medico in formazione specialistica in Geriatria (Padova)
Da tempo noto, il ruolo protettivo dell’attività fisica sul rischio tromboembolico è stato dimostrato anche dallo studio Physical activity and risk of first-time venous thromboembolism di Johanssonn M e Johansson L. dove è inclusa anche l’attività fisica intensa occupazionale nella popolazione femminile che non risulta però altrettanto protettiva negli uomini. [1-2] Il tromboembolismo venoso è una patologia molto comune, con un’incidenza di 1,7 casi ogni 1000 adulti per anno, che comporta un’elevata morbidità e una mortalità di circa il 20% nell’anno successivo alla diagnosi.[1-2] Qualsiasi condizione causi la stasi venosa negli arti inferiori è un fattore di rischio per lo sviluppo della patologia, per cui l’attività muscolare degli arti inferiori, favorendo la diminuzione della pressione venosa, sostiene il flusso e quindi costituisce un fattore protettivo. Inoltre, seppur non ancora chiaro il meccanismo fisiopatologico, vi sono evidenze che i due sistemi coinvolti, fibrinolitico e trombotico, vengano stimolati dall’attività fisica. [2] Molti studi ne hanno investigato il ruolo nel tempo libero nella prevenzione del tromboembolismo venoso ottenendo risultati contrastanti, ma in ambito occupazionale questo ruolo non è stato ben indagato. [1] L’attività fisica differisce mediamente tra uomini e donne, sia come tipologia sia come intensità; l’attività mirata all’aumento di potenza muscolare, più intensa, è più frequente negli uomini, mentre le donne prediligono blande attività aerobiche come lunghe camminate. Tale differenza si mantiene anche in ambito occupazionale: nonostante uomini e donne svolgano la medesima mansione, il sesso femminile è esposto a minore intensità di esercizio. Se si confronta invece il dato relativo alla mortalità, gli impieghi lavorativi ad attività fisica intensa hanno mostrato un’elevata mortalità negli uomini ma non nelle donne. Si evince quindi che i due sessi vadano considerati separatamente. Per quanto riguarda la popolazione maschile, nello studio di Glynn e Rosner, condotto su 18.622 soggetti americani, è stato dimostrato che i classici fattori di rischio cardiovascolare (come ipertensione arteriosa, elevati livelli di colesterolemia, diabete mellito e fumo) hanno una correlazione diretta con la malattia coronarica ma non con il tromboembolismo venoso, nel quale sembrano maggiormente impattanti alti livelli di Body Mass Index e alta statura. [3] Si sottolinea inoltre la correlazione tra frequente esercizio fisico ed aumento del rischio di tromboembolismo venoso. [3] Anche il vasto studio di coorte prospettico di Johansson et al., condotto dal 1984 al 2014, basato a sua volta sui dati provenienti dallo studio VEINS (Venous Thrombo – Embolism in Northen Sweden), sottolinea la mancanza di protezione dell’attività fisica nella popolazione maschile mentre ne conferma il ruolo protettivo sul rischio di andare incontro ad un primo episodio di tromboembolismo per le donne. [2] Il Physical activity and risk of first-time venous thromboembolism è stato condotto su 108,025 soggetti con un lungo follow up (15.5 anni di media). Il livello di attività fisica era stabilito attraverso dei questionari: uno indagava l’attività fisica nel tempo libero (suddiviso categorie “mai”, “qualche volta”, “1-2 volte a settimana”, “più di 2 volte a settimana”) e un altro questionario per l’attività fisica occupazionale (“sedentario o fermo in piedi”, “leggera e parzialmente attiva”, “leggera e attiva”, “alcune volte intensa”, “spesso intensa”). Il 51% della popolazione studiata era costituito da donne e tra queste il 52% svolgeva attività lavorativa che implicava elevata intensità di attività fisica, mentre il 34% svolgeva attività fisica nel tempo libero almeno 1 volta a settimana. Tra la popolazione in studio di sesso maschile, il 32% svolgeva attività fisica nel tempo libero. Le donne che facevano attività fisica nel tempo libero almeno una volta a settimana avevano un rischio inferiore di sviluppare tromboembolismo venoso (HR 0.83) come le donne che svolgevano un’attività lavorativa con alti livelli di attività fisica, mentre non c’era associazione negli uomini (HR 1.03; 95% CI 0.90-1.18). È stata eseguita anche un’analisi combinata tra attività durante il tempo libero e attività dell’occupazione con il Cambridge Index che non ha mostrato associazione tra il Cambridge Index e il rischio di tromboembolismo venoso nelle donne (p=0.08) ma, analizzando i dati mancanti e conferendo a questi il punteggio più basso di attività fisica, risultava un’associazione nelle donne ma non negli uomini. I limiti dello studio in analisi riguardano in particolare la mancanza di dati sui momentanei fattori di rischio per tromboembolismo venoso (come ospedalizzazioni o interventi chirurgici) e la possibile sovrastima dell’attività fisica compiuta dal soggetto che compila il questionario. Tuttavia, in conclusione, in contrasto con gli studi precedenti, è stata trovata una significativa associazione tra l’attività fisica e riduzione del rischio di TEV nelle donne, mentre non è stata evidenziata una significativa associazione negli uomini. Nonostante questi risultati controversi, è opinione estremamente condivisa che l’attività fisica vada incoraggiata per i notevoli e importanti effetti positivi tra i quali la riduzione del rischio cardiovascolare e riduzione di morte per tutte le cause. [1]
Riferimenti Bibliografici
- Tuttolomondo D. Protective role of physical activity in venous thromboembolism. Eur J Prev Cardiol 2019;26(11): 1178-1180
- Johansson M, Johansson L, Wennberg et al Physical activity and risk of first- time venous thromboembolism. Eur J Prev Cardiol 2019; 26(11): 1181-1187
- Glynn RJ and Rosner B. Comparison of risck factors for the competing risks of coronary heart disease, stroke, and venous thromboembolism. Am J Epidemiol 2005; 162: 975-982.
Testo visionato ed approvato per la pubblicazione online da: prof. Renato Nami, Docente FR di Cardiologia, Università degli Studi di Siena.