I BETA-BLOCCANTI NEL TRATTAMENTO DEL POST-INFARTO, ANCORA ATTUALI ?

Giuseppe Trisolino
Spec. Cardiologia
Segretario Nazionale ANCE

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L’utilizzo dei betabloccanti nel post infarto è una pratica clinica consolidata e il beneficio in termini di riduzione della mortalità, nei pazienti dopo infarto miocardico (IM) con insufficienza cardiaca e frazione di eiezione (FE) ridotta è ampiamente documentato da tempo. I beta-bloccanti, inibendo il legame delle catecolamine con i recettori β1 e β2 presenti nel tessuto specifico di conduzione e nel muscolo cardiaco provocano una riduzione della frequenza cardiaca e della velocità di conduzione che nel medio-lungo termine impediscono il rimodellamento ventricolare riducendo il consumo miocardico di ossigeno, proteggendo da aritmie potenzialmente mortali particolarmente nei primi 3 mesi dalla riperfusione. Tuttavia, il beneficio del beta-blocco si è documentato nei grandi infarti e prima dell’avvento degli attuali approcci diagnostici e terapeutici. Oggi, la disponibilità della rivascolarizzazione precoce dei vasi coronarici, forte inibitore dell’attività simpatica che di fatto mima l’azione dei betabloccanti e il trattamento estensivo con statine e terapie antiaggreganti, mette in discussione il valore della terapia con beta-bloccanti nei pazienti con malattia coronarica o infarto miocardico, in assenza di insufficienza cardiaca. I benefici del blocco adrenergico nell’era pre-rivascolarizzazione derivavano probabilmente dalla riduzione della morte aritmica e delle complicanze legate allo stress della parete. Il moderno approccio terapeutico, perfusione precoce e aggressiva terapia per la prevenzione secondaria, ha ridotto drasticamente queste complicanze, ne consegue che la terapia con beta-bloccanti potrebbe avere poco da aggiungere in termini di beneficio. Gli studi osservazionali hanno prodotto risultati contrastanti e solo uno studio randomizzato, in aperto, KAMIR-NIH, pubblicato su Eur Heart J Cardiovasc Pharmacother 2021, ha mostrato che, con un follow up di tre anni, non vi è stata alcuna differenza nei risultati clinici tanto da suggerire, secondo i ricercatori dello studio, che la terapia a lungo termine con beta-bloccanti potrebbe essere guidata da LVEF. Rimane, quindi, aperto il quesito se il trattamento a lungo termine nel postinfarto con beta-bloccanti nei pazienti con una frazione ventricolare sinistra di almeno 50%, riduce effettivamente il rischio di morte o infarto del miocardio. A tal proposito è stato condotto uno studio clinico, REDUCE-AMI, (Beta-Blockers after Myocardial Infarction and Preserved Ejection Fraction) randomizzato, prospettico, in aperto, a gruppi paralleli basato su registri in tre paesi (Svezia, Estonia e Nuova Zelanda), con l’obiettivo di valutare il potenziale beneficio del beta-blocco a lungo termine, dopo infarto miocardico acuto in pazienti con frazione di eiezione ventricolare sinistra (LVEF) conservata, nell’era moderna della rivascolarizzazione coronarica e della terapia medica, rispetto al mancato utilizzo di beta-bloccanti. Lo studio ha randomizzato 5.020 pazienti (età mediana 65 anni, 22,5% donne) sottoposti ad angiografia coronarica dopo infarto miocardico acuto e con una LVEF ≥ 50%, a ricevere, a lungo termine e iniziato precocemente, metoprololo (dose target 100 mg/die) o bisoprololo (dose target ≥ 5 mg/die) o nessuna terapia con beta-bloccanti. La terapia con beta-bloccanti, nei pazienti che erano già in trattamento, è stata gradualmente ridotta nell’arco di 2-4 settimane. I criteri di inclusione prevedevano la presenza di IM con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI) o NSTEMI entro 7 giorni dall’evento infartuale, l’esecuzione di angiografia coronarica eseguita durante l’ospedalizzazione con la documentazione di una malattia coronarica ostruttiva (stenosi ≥50% o test fisiologico invasivo positivo in qualsiasi vaso) e una LVEF preservata (≥50%). Venivano esclusi pazienti in cui vi era una controindicazione per il beta-blocco. All’indagine angiografica una malattia monovasale era presente nel 55,4 % dei pazienti e una malattia del tronco comune o trivasale nel 16.6 %. Il 95,5 % dei pazienti è stato sottoposto a PTCA e il 3,9 % a BPAC. Per quanto riguarda i fattori di rischio il 46,2 % era iperteso, il 14,0% diabetico, il 7,1 % aveva avuto un pregresso infarto miocardico e lo 0,7 % una insufficienza cardiaca. Alla dimissione i pazienti hanno ricevuto ac. Acetilsalicilico (97.4%), bloccante del recettore P2Y12 (95,8%), Ace inibitori o Sartani (80,2 %) e statina (98,5 %). L’endpoint primario era un composito di morte per qualsiasi causa o nuovo infarto miocardico. Gli endpoint secondari erano la morte per qualsiasi causa, morte per cause cardiovascolari, infarto miocardico, ospedalizzazione per fibrillazione atriale o ricovero per insufficienza cardiaca. Erano previsti, inoltre, endpoint di sicurezza rappresentati dalla ospedalizzazione per bradicardia, comparsa di BAV II o III grado, impianto di PM o ipotensione, ospedalizzazione per asma o BPCO o ictus. I risultati hanno mostrato che, a un follow-up mediano di 3,5 anni, l’endpoint composito primario di morte per qualsiasi causa o nuovo infarto miocardico non fatale si è verificato nel 7,9%, (pari ad un tasso annuale del 2,4%) dei pazienti nel gruppo beta-bloccanti vs 8,3% dei pazienti (tasso annuale del 2,4%) nel gruppo senza beta-bloccanti (HR, 0,96; IC 95%, 0,79-1,16; p=0,64), mostrando nessuna differenza in termini outcome tra i due gruppi. Inoltre, il trattamento con beta-bloccanti, rispetto alle cure abituali, non sembrava portare una minore incidenza cumulativa degli endpoint secondari: ospedalizzazione per insufficienza cardiaca 0,8% nel gruppo beta-bloccanti vs. 0,9% gruppo di controllo; morte per qualsiasi causa 3,9% vs 4,1%; mortalità per cause cardiovascolari nel 1,5% vs 1,3%; infarto miocardico nel 4,5% vs 4,7%. Anche per quanto riguarda gli endpoint di sicurezza non si sono registrate differenze significative tra il gruppo in trattamento con beta-bloccanti ed il gruppo non in beta-blocco (ospedalizzazione per bradicardia, BAV di II o III grado, ipotensione, sincope o impianto di PM si è verificata nel 3,4 % gruppo in trattamento vs 3,2% nel gruppo di controllo (HR 1,08, IC 95% 0,79-1,46, p=0,64). Nessuna differenza nell’ospedalizzazione per asma o BPCO ed ictus. L’assenza di un effetto del trattamento con beta-bloccanti sull’incidenza cumulativa di morte o infarto miocardico sembrava essere coerente in tutti i sottogruppi prespecificati. Infine, non è stata osservata alcuna associazione apparente tra la dose target del trattamento con beta-bloccanti e l’endpoint primario. Pur con tutti i limiti di uno studio in aperto, non in cieco e che non ha tenuto conto del crossover, aspetto quest’ultimo non trascurabile ( a 1 anno circa il 18% di quelli assegnati a ricevere beta-bloccanti avevano già smesso di usarli e circa il 14% di quelli assegnati al gruppo di controllo aveva iniziato il trattamento con beta-bloccanti), il REDUCE -AMI ha, tuttavia, dimostrato che tra i pazienti con infarto miocardico acuto sottoposti ad angiografia coronarica precoce e con una frazione di eiezione ventricolare sinistra conservata, il trattamento con beta-bloccanti a lungo termine non ha portato a un minor rischio di morte. Va, però, rilevato che l’incidenza osservata degli eventi end-point primari nel gruppo di controllo è stata inferiore a quanto previsto dagli investigatori (7 % anno), il che sottolinea la selezione di una coorte di pazienti con frazione di eiezione ventricolare sinistra quasi normale che erano stati sottoposti a intervento di rivascolarizzazione precoce e che ha ricevuto cure eccellenti. Non vengono fornite, inoltre, informazioni sulla prevenzione delle tachiaritmie ventricolari e della morte improvvisa, importante beneficio potenziale dei beta-bloccanti in questo contesto. In conclusione, l’utilizzo del beta-bloccante nel post infarto è certamente una pratica clinica consolidata, ma si basa sull’effetto protettivo dimostrato in studi clinici randomizzati datati e pertanto condotti prima dello straordinario sviluppo e diffusione delle tecniche di rivascolarizzazione percutanea e dell’implementazione sistematica delle statine e delle moderne terapie antiaggreganti. Se ciò porterà ad un definitivo cambio di comportamento nella pratica clinica non é al momento dato di sapere, ma per la difficoltà di dimostrare in modo incontrovertibile, per le limitazione di un unico studio in aperto, l’assenza di beneficio della terapia beta-bloccante in questo setting di pazienti, appare prematuro l’abbandono definitivo della terapia con beta-bloccanti in prevenzione secondaria nel postinfarto. Tuttavia, va dato atto ai ricercatori di REDUCE-AMI di aver iniziato a sfatare un dogma pluridecennale dell’uso di beta-bloccanti dopo l’infarto miocardico con funzione ventricolare sinistra conservata, quota probabilmente maggioritaria di pazienti moderni nel post-infarto miocardico e questo studio apre un nuovo capitolo della cardiologia moderna, quello di ritestare vecchi dogmi. Quando gli studi in corso confermeranno i risultati di REDUCE-AMI, la cura del post-infarto miocardico sarà probabilmente riscritta.

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