SARTANI E RISCHIO DA TUMORE: La Posizione della SIA

Una metanalisi pubblicata da Lancet Oncology aveva evidenziato un possibile modesto aumento di rischio di sviluppare neoplasie nei pazienti in terapia con sartani. Dopo il commento di Mauro Venegoni del Centro regionale Farmacovigilanza di Milano, diamo spazio ai professori Massimo Volpe e Alberto Morganti che espongono la posizione della Società Italiana di Ipertensione Arteriosa.

Negli ultimi 30 anni la mortalità per malattie cardiovascolari si è drammaticamente ridotta grazie all’introduzione non soltanto di nuove molecole e nuovi farmaci, ma anche di strategie terapeutiche innovative ed integrate. Tra i cosiddetti “nuovi farmaci”, i bloccanti del sistema renina-angiotensina (RAS) hanno progressivamente acquisito un ruolo predominante nel trattamento delle malattie cardiovascolari, trovando indicazione in molteplici condizioni cliniche, tra cui ipertensione arteriosa, infarto miocardico, scompenso cardiaco, nefropatia e diabete mellito. Nell’ambito degli agenti utilizzati per bloccare selettivamente il RAS, gli antagonisti recettoriali dell’angiotensina II (ARBs) hanno avuto un’ampia diffusione, grazie al documentato profilo di efficacia ed alla riconosciuta tollerabilità (1). Si stima, infatti, che circa il 25% dei pazienti con ipertensione arteriosa assuma ARBs e che nel mondo il numero di pazienti in terapia con questa classe di farmaci sia pari a circa 200 milioni di individui. Inoltre, nell’ultima decade, numerosi studi clinici internazionali hanno confermato l’efficacia di questa classe di farmaci, valutando importanti obiettivi (cosiddetti “endpoints”) cardiovascolari e renali in varie condizioni cliniche. Tali evidenze ne hanno validato le attuali indicazioni terapeutiche, che sono state confermate nelle principali linee guida internazionali.

In ottemperanza alle consuete norme regolatorie, ma soprattutto in considerazione del diffuso impiego che ha seguito la pubblicazione dei risultati dei grandi studi clinici, gli ARBs sono stati oggetto di particolare osservazione e vigilanza da parte sia dei medici nella loro pratica clinica, sia degli organi responsabili della sicurezza dei farmaci. In passato, infatti, furono sollevati dubbi riguardo la sicurezza dell’utilizzo a lungo termine di tale classe farmacologica. Nel 2004 fu pubblicata un’analisi parziale di dati della letteratura scientifica che rilevava una possibile relazione tra l’utilizzo degli ARBs ed un aumentato rischio di infarto miocardico (2). Questo dato fu successivamente confutato da analisi più approfondite, mostrando come non vi fosse alcuna relazione significativa tra l’impiego di ARBs ed il rischio di infarto miocardico (3).

In seguito, sulla base di alcune analisi non predefinite dello studio Candesartan cilexitil in Heart failure: Assessment of Reduction in morbidity and Mortality (CHARM) (4), nel quale si osservò un’aumentata mortalità per cancro nel braccio di pazienti in trattamento con ARBs, e di osservazioni sperimentali che avevano ipotizzato un potenziale coinvolgimento dei recettori AT1 e AT2 nel processo di cancerogenesi, è stato suggerito un possibile ruolo degli ARBs nella patogenesi di alcune neoplasie. Del tutto recentemente, è stata pubblicata una meta-analisi che ha analizzato la possibile relazione tra l’utilizzo di ARBs ed il rischio di sviluppo di cancro (5). Secondo questi Autori, l’utilizzo di ARBs sarebbe associato ad un incremento pari a circa l’1-2% dell’incidenza di cancro rispetto al gruppo di controllo (5).

Considerata l’elevata diffusione di questa classe di farmaci, tale notizia ha avuto immediato riscontro nella stampa, suscitando non poco allarme tra i pazienti e confusione nella classe medica. Per tale motivo, appare necessario esprimere una posizione, sulla base di considerazioni scientifiche, sia sulla meta-analisi in questione sia sull’ eventuale plausibilità biologica di una tale associazione.

In prima analisi, bisogna considerare che i dati della meta-analisi di Sipahi e collaboratori (5) non derivano da uno studio prospettico; viceversa, essi derivano da un’analisi “a posteriori” (e persino parziale) di studi clinici, che sono stati programmati e condotti per obiettivi diversi, oltre che fortemente condizionati dall’approccio di tipo meta-analitico. Quest’ultimo, a sua volta, è inderogabilmente influenzato dalla qualità della raccolta dei dati. Nella meta-analisi in questione, infatti, non sono stati inclusi molti degli studi clinici condotti con ARBs (almeno 16), scelta metodologica che influisce profondamente sui risultati finali. Per esempio, la sola aggiunta dello studio Valsartan Antihypertensive Long-term Use Evaluation(VALUE) (6) avrebbe annullato la differenza osservata tra ARBs e gruppo di controllo nell’incidenza di nuovo cancro (Julius S, Kjeldsen SE, Weber MA. Angiotensin-receptor blockade and the risk of cancer. Omission of VALUE trial data invalidates conclusions [letter to the editor]. Theheart.org), dal momento che in quello studio i casi di neoplasia furono inferiori nel gruppo ARBs rispetto al gruppo con calcio-antagonisti. Nella meta-analisi di Sipahi (5) non sono stati, inoltre, riportati dati riguardanti l’età, la distribuzione di sesso, l’abitudine tabagica e la pregressa storia di neoplasie, dati clinici che indubbiamente potrebbero influire significativamente sul rischio basale dei soggetti arruolati nei vari studi. Un ulteriore aspetto da commentare concerne la durata media del periodo di osservazione (follow-up) degli studi inclusi nella meta-analisi (massimo 5 anni). Tale intervallo di tempo non appare essere affatto sufficiente a stabilire una plausibile causalità tra l’utilizzo degli ARBs e l’incidenza di cancro nell’uomo. È noto, infatti, che il processo di cancerogenesi e di sviluppo tumorale richiede un tempo, spesso stimabile in diversi anni, per cui risulta quanto meno azzardato concludere che gli ARBs costituiscano un rischio aggiuntivo per lo sviluppo di cancro, sulla base di osservazioni relativamente brevi e non accuratamente volte ad identificare la diagnosi di neoplasia. Molti dei dubbi generati dallo studio parziale che ha collegato l’impiego degli ARB alla comparsa di neoplasie (5), sono stati recentemente pressoché fugati da una metanalisi vasta e più completa che ha preso in esame 70 trials con gli ARBs condotti in circa 325.00 pazienti (7). Ebbene, i risultati di questo studio non hanno riportato alcun incremento del rischio di cancro con l’impiego degli ARBs.

Il secondo aspetto fondamentale per determinare se, come proposto dagli Autori di questo lavoro (5), sia necessario uno studio prospettico per valutare la relazione tra ARBs e neoplasie, concerne i meccanismi che giustificherebbero una tale relazione fisiopatologica. Gli Autori propongono l’ipotesi secondo la quale l’aumento dei livelli plasmatici circolanti dell’angiotensina II, secondario al blocco selettivo dei recettori AT1, potrebbe favorire un’aumentata stimolazione dei recettori AT2 favorendo l’angiogenesi tumorale (5). In realtà, al di là del fatto che nell’uomo non si è potuto con certezza determinare un aumento della popolazione dei recettori del sottotipo AT2 in presenza di dosi terapeutiche di ARBs, il ruolo dei recettori AT2 nell’oncogenesi rimane tuttora assolutamente controverso. Numerose osservazioni sperimentali dimostrano, infatti, come la facilitazione dell’angiogenesi sia quasi esclusivamente mediata dai recettori AT1, attribuendo invece ai recettori AT2 proprietà anti-angiogeniche. Inoltre, cellule di carcinoma pancreatico duttale messe in coltura con fibroblasti trasfettati con il recettore AT2 mostrano una crescita rallentata e l’iperespressione di AT2 in cellule di carcinoma polmonare induce morte cellulare per via apoptotica (8, 9). Questi dati supporterebbero, di fatto, un profilo anti-tumorale dei recettori AT2. Tuttavia, dati sperimentali del tutto recenti avrebbero dimostrato che in determinate condizioni patologiche i recettori AT2 potrebbero assumere un fenotipo AT1, perdendo le proprietà di vasodilatazione ed antiangiogenesi e mostrando caratteristiche pro-angiogeniche (10). A questi risultati, che sottolineano le ancora numerose incertezze riguardo al ruolo dei recettori dell’angiotensina II nella carcinogenesi, si affiancano altre evidenze sugli effetti pro- o antitumorali del blocco del RAS. Per esempio, il blocco dell’ enzima ACE provoca un aumento dei livelli plasmatici di N-acetil-seril-aspartil-lisil-prolina (Ac-SDKP), un inibitore naturale della proliferazione delle cellule staminali pluripotenti ma i cui livelli risultano aumentati in alcuni tumori ematologici e solidi (11, 12). Inoltre, i bloccanti del RAS provocano un aumento dei livelli di renina ed una sovrastimolazione del recettore della pro-renina. Quest’ultimo sarebbe coinvolto nel pathway Wnt-β-catenina, che media alcuni processi di oncogenesi, sebbene ciò sia dimostrato per ora solo negli anfibi Xenopus (13). Da questi e molti altri dati della letteratura scientifica si può dedurre che l’eventuale relazione tra bloccanti del RAS ed incidenza di cancro non sia affatto sostenuta dalla letteratura e che comunque non riguardi in modo esclusivo la classe farmacologica degli ARBs.

Occorre, inoltre, sottolineare come allo stato attuale i dati derivati dalle centinaia di migliaia di pazienti inclusi in studi clinici condotti con farmaci bloccanti del RAS, tra cui ACE inibitori ed ARBs, non sostengono affatto questa ipotesi, così come non vi è alcun elemento a supporto dai dati della farmacovigilanza di molti Paesi (14). A tale riguardo, vari studi osservazionali orientano addirittura verso un effetto anticancerogenico dei farmaci che antagonizzano il RAS. Uno dei primi studi al proposito ha valutato retrospettivamente il rischio di cancro in una popolazione di 1559 pazienti affetti da ipertensione arteriosa, che avevano assunto ACE inibitori per più di quindici anni. Rispetto al gruppo di controllo, il rischio relativo d’incidenza di cancro era ridotto del 28% nei pazienti in trattamento con ACE inibitori e questo dato era ancor più evidente nella donna (-37%) (15). In altri tre studi retrospettivi caso-controllo, che hanno valutato la correlazione tra ACE inibitori e l’incidenza di cancri dell’esofago, del pancreas e del colon, in una popolazione di 483.733 pazienti, l’uso di questi farmaci era associato ad una significativa riduzione del rischio per tutti e tre questi tipi di cancro (16). È interessante notare che in tutti questi studi la riduzione del rischio di cancro non si osservava nei pazienti che assumevano altri farmaci antipertensivi, il che suggerisce che gli effetti benefici osservati con gli ACE inibitori e gli ARBs siano dovuti ad un loro specifico meccanismo protettivo, piuttosto che al generico effetto di riduzione della pressione arteriosa. Anche in tema di sopravvivenza nei pazienti affetti da cancro, il trattamento con ACE inibitori ed ARBs sembra conferire effetti benefici, piuttosto che negativi. In uno studio di 287 pazienti con tumore polmonare già in trattamento chemioterapico, quelli trattati con ACE inibitori o ARBs avevano una sopravvivenza di circa 3 mesi più lunga rispetto a quelli che non li assumevano (17). In un altro studio retrospettivo, condotto in pazienti con cancro del colon-retto, Heinzerling e collaboratori hanno osservato un minor sviluppo di metastasi nei pazienti in trattamento con farmaci ACE inibitori (18). Un simile effetto benefico è stato osservato anche da Uemura e collaboratori in un piccolo gruppo di pazienti con cancro alla prostata già in fase metastatica trattati con candesartan (19). Questi dati nell’uomo sono in linea con quelli ottenuti in modelli sperimentati di cancro, che dimostrano una riduzione del volume e dell’angiogenesi negli animali trattati con ARBs rispetto ai controlli (2022).

In conclusione, sulla base delle evidenze attualmente disponibili, anche la Food and Drug Administration (FDA) ritiene che il beneficio derivante dall’utilizzo degli ARBs sovrasti i potenziali rischi associati per cui ne esorta l’impiego secondo le attuali indicazioni terapeutiche, sostenendo l’opportunità di mantenere livelli di farmacovigilanza adeguati senza dover intraprendere, sulla base dei dati disponibili, studi clinici prospettici su queste problematiche (23). La Società Italiana dell’Ipertensione Arteriosa ritiene, pertanto, di convidere, allo stato attuale, questa posizione.

Bibliografia

 

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  23. Ongoing safety review of the angiotensin receptor blockers and cancer. FDA Drug Safety Communication, 17 luglio 2010

UPDATE cardiologia 2023

Gianluca Belletti

Responsabile Servizio di Cardiologia Unità Operativa Polispecialistica Ravenna 33

Questo è stato un anno di importanti novità, studi clinici, spunti di riflessione su tematiche che spaziano dalla cardiopatia ischemica, alle cardiomiopatie, alle valvulopatie, all’elettrofisiologia e sono state presentate al recente congresso europeo di Amsterdam nuove linee guida (diabete, sindrome coronarica acuta, endocardite infettiva, cardiomiopatie). Riguardo l’endocardite infettiva ad esempio, se non ci sono state novità (rispetto alle precedenti, in merito ai fattori di rischio cardiaci

(pregressa endocardite, valvulopatie, protesi valvolari, presenza di cateteri arteriosi o centrali) e non cardiaci (immunosoppressione, pazienti tossicodipendenti che si iniettano droghe, recenti procedure odontoiatiche o chirurgia, ospedalizzazioni o emodialisi), sono stati revisionati e schematizzati i criteri maggiori di diagnosi di laboratorio di endocardite quale il riscontro di lesioni valvolari, perivalvolari, periprotesiche (vegetazioni) mediante una delle seguenti metodiche di imaging (ecocardiogramma transtoracico, EcoTE, Tac cardiaca, Tac Pet). Una delle novità più importanti è sicuramente la possibilità di passare alla terapia endovena e orale a domicilio dopo 10 giorni di terapia endovena ospedaliera, previa esecuzione di ecocardiogramma transesofageo. Tale passaggio si può effettuare solo se il paziente è clinicamente stabile e se vi è a casa un’assistenza idonea. In merito al trattamento chirurgico, le nuove LG rimane in classe 1 A l’intervento in emergenza /urgenza dell’endocardite su valvola nativa o protesica con insufficienza valvolare acuta in caso di shock cardiogeno o edema polmonare. L’intervento chirurgico urgente è anche raccomandato (I B) in caso di infezioni non controllate ed in caso di endocarditi con vegetazioni persistenti più grandi di 10 mm, dopo 1 o più episodi embolici nonostante appropriata terapia antibiotica. Tema su cui si dibatte e mai completamente risolto è quello delle ostruzioni coronariche croniche, condizione che coinvolge fino al 10% degli infarti miocardici ST sopralivellato e fino al 18% delle coronarografie). Tale condizione impatta significativamente in negativo sulla prognosi fin da subito, come dimostra il registro, pubblicato quest’anno comprendente 12928 pazienti sottoposti a PTCA di ostruzioni croniche. I concetti che devono guidare la decisione di procedere a rivascolarizzazione sono la presenza di ischemia, la funzione sistolica del ventricolo sinistro e l’eventuale riduzione del rischio aritmico derivante dal ripristinare il flusso in quella determinata area miocardica. Gli studi randomizzati esistenti non hanno concluso nulla (verosimilmente perché studi con un numero di pazienti limitato, basso potere statistico e con alta percentuale di cross-over tra PTCA e terapia medica). In conclusione, la rivascolarizzazione di un’ostruzione cronica deve essere guidata dai sintomi e nel caso eseguita da operatori esperti. Altro argomento su cui in questo anno si è discusso molto è la consulenza cardiologica nella chirurgia non cardiaca. A partire dalle LG del 2022 è stata sottolineata l’importanza del calcolo del rischio di eventi cardiovascolari utilizzando una serie di scores: il più utilizzato dei quali è il Lee Cardiac risk score. Molto interessanti sono la possibilità di predire eventi cardiovascolari con l’esecuzione di coroTC prima di un intervento chirurgico, il valore prognostico di un incremento dei valori di troponina nel post-operatorio e gli effetti favorevoli di un trattamento personalizzato e potenziato dell’ipertensione arteriosa. Riguardo alla gestione della duplice terapia antiaggregante in paziente con recente IMA e stent, se vi è un alto rischio trombotico e/o è trascorso meno 1 mese dalla PTCA o meno di tre mesi dall’IMA (in presenza di alto rischio emorragico), se possibile si rinvia l’intervento chirurgico altrimenti le linee guida consentono l’impiego di cangrelor (inibitore P2Y12 endovena). A proposito di fibrillazione atriale quest’anno ci si è soffermati sull’inquadramento diagnostico che non può prescindere da una completa ed accurata ecocardiografia (speckle tracking ed eco 3 D) per definire anatomia, geometria e funzione dell’atrio e del ventricolo sinistro e per identificare le cause della fibrillazione atriale stessa. Ciò poiché i pazienti con ridotta funzione atriale sinistra hanno una più alta percentuale di fibrosi e rimodellamento, più alto rischio di eventi cardioembolici, più elevata possibilità di sviluppare fibrillazione atriale dopo un intervento cardiochirurgico e più elevata possibilità di recidiva dopo ablazione o cardioversione. Nelle linee guida del 2020, l’ablazione della fibrillazione atriale persistente o parossistica (paziente sintomatico) è in classe 2A, in classe I in caso di insuccesso della terapia medica, segni di scompenso cardiaco ed FE ridotta. Lo studio Castle-AF ha documentato un significativo vantaggio clinico dell’ablazione nei pazienti con scompenso cardiaco con riduzione sia dei ricoveri per peggioramento dello scompenso e che della mortalità per tutte le cause e sta per essere pubblicato su JACC uno studio su 2000 pazienti che mette in evidenza che i risultati, in termini prognostici, dell’ablazione si hanno se la stessa viene effettuata prima possibile entro i primi 3 anni dalla diagnosi. È stato sottolineato e confermato che è essenziale la profilassi degli eventi trombotici con terapia anticoagulante (preferibilmente NOAC) nei pazienti con fibrillazione atriale ed elevato rischio embolico, includendo anche il paziente anziano e fragile (come mostrano diversi registri, l’ultimo dei quali l ETNA-AF per edoxaban). La chiusura percutanea dell’auricola di sinistra è attualmente una procedura disponibile, consolidata e sicura in mani esperte, per ridurre il rischio di ictus nei pazienti con controindicazione alla terapia anticoagulante ad elevato rischio emorragico. È ormai riconosciuta la possibilità di identificare episodi più o meno prolungati di aritmie con dispositivi elettronici (tipo Apple Watch), capacità che in precedenza veniva riconosciuta solo ai device (PM e AICD). Tra le novità troviamo anche la definizione del rischio cardioembolico degli AHRE (episodi di tachiaritmia atriale con frequenza maggiore di 190/min); nel 2023 è stato pubblicato lo studio NOAH-AFNET 6 che ha randomizzato 2500 pazienti con AHRE ad edoxaban o placebo. Età media elevata, CHADS 2 VASC medio di 4, endpoint di stroke e morte cardiovascolare. Lo studio è stato interrotto prematuramente per futilità: nessuna differenza significativa riguardo gli endpoint primari e un trend di incremento dei sanguinamenti. Molto importanti le novità riguardanti lo scompenso cardiaco, in particolar modo lo scompenso cardiaco a frazione di eiezione preservata: confermata l’importanza della terapia con glifozine anche in questo gruppo di pazienti (lo studio EMPEROR-Preserved del 2021ha mostrato una riduzione significativa nei pz con FE > 40% dell’endpoint primario morte cardiovascolare ed ospedalizzazione per scompenso); analogia di risultati sulla stessa categoria di pazienti nello studio DELIVER del 2022 Le glifozine (empa e dapaglifozin) sono quindi state inserite in classe IA nell’update delle linee guida presentate all’ultimo congresso ESC ad Amsterdam) sia nei pazienti con scompenso cardiaco a funzione sistolica preservata che lievemente ridotta. È stato presentato lo studio Victoria (5000 pazienti NYHA II, III e IV con FE < 45% sull’uso del vericiguat vs placebo nei pazienti con scompenso in peggioramento (un episodio di riacutizzazione entro 3 mesi); il vericiguat, stimolatore diretto di cGMP, produce riduzione dello stress ossidativo e miglioramento endoteliare e vascolare a livello cardiaco e periferico; lo studio ha mostrato, a 10,8 mesi di FU medio, una significativa riduzione dell’endpoint primario (morte CV ed ospedalizzazione per scompenso). Nell’update linee guida del 2023 l’impiego di vericiguat è in classe 2 B. sono stati citati nell’armamentario terapeutico dello scompenso cardiaco avanzato anche il Patiromer (chelante del potassio: studio Diamond) per il trattamento dell’iperkaliemia nei pazienti con scompenso cardiaco a FE ridotta e la terapia con ferro endovena nei pazienti sintomatici con scompenso cardiaco ed FE ridotta per alleviare i sintomi e migliorare la qualità di vita (classe I A) e per ridurre il rischio di ospedalizzazione (classe 2a A). Le modalità di titolazione dei 4 capisaldi terapeutici dello scompenso cardiaco (ARNI, BB, SGLT2 ed MRA) sono state valutate nello studio Strong-HF (1078 pazienti con scompenso cardiaco acuto); la documentazione di maggiore efficacia della titolazione rapida ed intensiva ha portato ad una modifica delle linee guida in cui compare in classe I A una strategia di titolazione rapida ed intensiva dei farmaci prima della dimissione e nel primo follow-up che porti ad avere in terapia i 4 farmaci al massimo dosaggio tollerato in 6 settimane (senza peraltro un ordine fisso nell’iniziare uno o l’altro farmaco). Relativamente alla terapia ipolipemizzante è stata sottolineata l’importanza di  raggiungere prima possibile i target terapeutici di LDL; lo studio EPIC-STEMI ha mostrato che gli inibitori del PCS K9 permettono di raggiungere i livelli target di LDL nella maggior parte dei pazienti a rischio elevato (alirocumab 150 mg somministrato precocemente ha determinato una riduzione del 73% dei livelli di LDL). La strategia step-wise, per quanto razionale, è fortemente limitata nella sua efficacia da aspetti clinici, organizzativi e normativi; Occorre calcolare all’ingresso la distanza dal target (LDL basale- LDL target/LDL basale x 100) e utilizzare il fast-track alla dimissione in modo da garantire una maggiore probabilità di raggiungere i livelli raccomandati di LDL. Molto interessanti le novità introdotte dalle nuove linee guida ESC sulle cardiomiopatie. L’approccio metodologico basato sulla conoscenza e l’uso di red flags cardiache e non cardiache ha determinato un incremento di prevalenza delle cardiomiopatie rispetto a quanto si credeva in passato. La diagnosi eziologica è ormai imprescindibile perche’ la terapia specifica è disponibile in moltissime cardiomiopatie con considerevole impatto sulla prognosi. Viene stressata l’importanza del sospetto clinico (considerare l’ipotesi cardiomiopatia ipertrofica in caso di spessore ventricolare sinistro maggiore o uguale a 15 mm in qualsiasi segmento miocardico non spiegato solamente da condizioni di carico oppure uno spessore ventricolare sinistro di 13-14 mm associato a familiarità, genetica, anomalie ECG). Relativamente alla terapia della cardiomiopatia ipertrofica gli studi di fase III EXPLORER HCM e VALOR HCM hanno documentato gli effetti benefici di mavacanten (primo inibitore diretto della miosina cardiaca), già approvato dagli stati membri dell’unione europea. L’incidenza e prevalenza dell’amiloidosi (soprattutto nelle forme wild-tipe) sono state nettamente incrementate dall’uso di “red flags” (red flags clinici: tunnel carpale bilaterale, stenosi spinale lombare, disfunzione autonomica; red flags ECG: bassi potenziali e pattern tipo “pseudo infarto”, sproporzione tra ispessimento all’ecocardiogramma e bassi potenziali). Alla diagnostica di I livello seguono esami di II livello: RMN cardiaca, scintigrafia ossea e test ematologici per identificare il meccanismo etiopatogenetico. Relativamente alle possibilità terapeutiche oltre alla terapia già in uso (tafamidis, farmaco che stabilizza e blocca il tetramero responsabile della malattia) sono in corso studi con farmaci che sfruttano altri meccanismi d’azione (silenziatori del gene responsabile, oppure agenti che degradano le fibrille di amiloide). Tra questi ultimi il patisiran (acido ribonucleico che degrada specificamente il mRNA della transiretina), testato nello studio di fase 3 Apollo study con risultati promettenti (riduzione dello spessore del setto all’eco, miglioramento del GLS e del rilascio dei biomarkers).

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