IPERTENSIONE ARTERIOSA E CARDIOPATIA ISCHEMICA GESTIONE SUL TERRITORIO – Centro Congressi Capotaormina 12/13 Aprile 2019 (TAORMINA-ME)

Giuseppina De Benedittis Consigliere Nazionale ANCE

 

La magnifica cornice di Capotaormina ha fatto da sfondo al secondo Congresso Interregionale ANCE del 2019, dal titolo “Ipertensione arteriosa e cardiopatia ischemica: gestione sul territorio”, che ha coinvolto alcune Regioni del Centro-Sud Italia ed in particolare Campania, Puglia, Calabria e Sicilia.

Il pomeriggio del 12 Aprile è stato dedicato al tema dell’Ipertensione arteriosa con una sessione animata da 4 importanti relazioni e moderata da Vincenzo Aulitto (Napoli) e Luigi Dante Giuncato (Lecce):

  1. Nella “Diagnostica strumentale del danno d’organo nel paziente iperteso”, presentata da Pasquale Predotti (Salerno), è stata sottolineata l’importanza della corretta rilevazione del danno d’organo, secondo le ultime Linee Guida ESC 2018, per la prescrizione della terapia più adeguata. Valutati vecchi e nuovi parametri strumentali quali lo strain all’ECG, la massa del ventricolo sinistro, espressa in grammi, (< 95 nelle donne e <115 negli uomini valori normali), la geometria del ventricolo sinistro, la funzione diastolica con E/A, E/e’, volume dell’atrio sinistro (fino a 34 ml/m2 è normale). E’ stata messa, inoltre, in risalto l’importanza del monitoraggio pressorio delle 24 ore per la diagnosi di ipertensione arteriosa secondaria, da sospettare se viene rilevata ipertensione notturna.
  2. L’“Ipertensione nel giovane adulto: va sempre trattata?”, di Giuseppe Scaccianoce (Catania), ha messo in evidenza come la prevalenza della IA di grado lieve tra i giovani sia più comune di quanto si possa credere ed in costante aumento e richieda la giusta attenzione al fine di ridurre il rischio a lungo termine di eventi cardiovascolari e mortalità in età adulta. Il primo passo nel trattamento dell’IA nel giovane riguarda le modifiche dello stile di vita: riduzione del peso corporeo, se in sovrappeso, un regime di regolare esercizio aerobico, restrizione dell’assunzione di sale, limitato consumo di alcol, cessazione del fumo. Nel caso tali modifiche dello stile di vita dovessero risultare insufficienti, le linee guida raccomandano l’uso di farmaci antiipertensivi. Per quanto riguarda la scelta di utilizzare un  solo farmaco o la combinazione di più farmaci, la titolazione dei dosaggi, il passaggio (switch) da un principio attivo all’altro, si è fatto riferimento alle linee guida della Società  Europea di Cardiologia sull’Ipertensione Arteriosa, pubblicate nel 2018.
  3. Nel “Trattamento del paziente iperteso alla luce delle nuove Linee Guida ESC/ESH”,
    Renato Nami (Siena), ha rilevato come i cut off di normalità della pressione arteriosa siano diversi tra le Linee Guida Europee e quelle Americane, con una differenza di 10 mmHg. Sia l’ipertensione mascherata che quella da camice bianco sono ignorate dalle LG sia americane che europee. I valori limite non corrispondono ai target  pressori nelle ultime LG ESC e questo può generare confusione. Fermo restando che lo sport terapia è il farmaco ideale per tutti, il trattamento farmacologico deve essere, invece, sempre più personalizzato e deve tenere conto anche della presenza degli altri fattori di rischio associati, presenza ed entità del danno ’organo, comorbilità. Nel soggetto anziano, per esempio, abbassare troppo la PA può essere deleterio (curva J) mentre nei giovani l’intervento deve essere precoce.
  4. L’ecocardiografia per differenziare l’ipertrofia fisiologica dello sportivo da quella patologica”, di Santi Mangano (Messina) ha evidenziato come l’Elettrocardiografia e l’Ecocardiografia siano le metodiche di I livello, utili per discriminare tra ipertrofia fisiologica e patologica. La prima è caratterizzata da un aumento armonico delle dimensioni delle cavità e degli spessori parietali ed una normale EF. Se quest’ultima appare lievemente ridotta, aumenta sotto sforzo nell’atleta. E’ importante fare un esame completo, indicizzando tutti i parametri per la superficie corporea. Il rapporto h (spessore del setto+parete posteriore)/R (diametro telediastolico del ventricolo sinistro) > 0,5 è patologico. L’onda E del flusso transmitralico è aumentata nell’atleta. Un’onda e’ del TDI < 9 m/sec è patologica. Lo spessore normale delle pareti del ventricolo sinistro è 9 mm nelle donne e 10 mm negli uomini. Fattori che determinano gli adattamenti all’attività fisica sono il tipo di sport e l’etnia.

La discussione seguita ha palesato momenti di grande interesse e partecipazione.

 

Il 13 Aprile la II Sessione, moderata da Vincenzo Romano e Renato Nami, è stata inaugurata da Cesare de Gregorio (Messina), che ha affrontato il tema delle “Sindromi coronariche inusuali”, cioè di sindromi rare, nell’ambito delle sindromi coronariche acute (SCA) senza sopraslivellamento di ST (NSTEMI), che riconoscono meccanismi fisiopatologici differenti dalla classica trombosi coronarica, in primis, lo spasmo coronarico. Le sindromi da cardio-stress come la Takotsubo o le forme da neurostress (da emorragia cerebrale o subaracnoidea), il cui meccanismo fondamentale è una disfunzione miocardica da stress catecolaminergico, sono un esempio. E’ stata anche ipotizzata un’alterata distribuzione di recettori β1 e β2 nel miocardio ventricolare, che supporterebbe un improvviso “burnout” di alcuni di questi recettori.

Altre sindromi rare, sebbene conosciute già da alcuni anni, sono le sindromi istaminergiche:

  1. la sindrome descritta da Kounis nel 1991 è definibile come una SCA, che si manifesta a seguito di un vasospasmo coronarico, che l’autore definì “angina allergica”. Si tratta di una reazione anafilattica, allergica, causata da una reazione esagerata a numerosi allergeni, con i quali l’individuo è già venuto a contatto con una conseguente sensibilizzazione. Negli anni successivi, nella sindrome di Kounis sono state anche annoverate alcune forme di infarto miocardico acuto e SCA secondarie a trombosi di stent conorarici.
  2. simile alla Kounis (e per questo classificata dallo stesso autore come una variante della principale) è la cosiddetta “Sindrome dello Sgombroide”, non allergica (anafilattica) ma anafilattoide, ovvero dovuta ad ingestione ab-extrinseco di grandi quantità di istamina. Si tratta di una intossicazione alimentare da istamina, causata dall’ingestione di pesce mal conservato (sgombro e derivati come il tonno, ma anche carni) o fatto deteriorare per le elevate temperature ambientali, che viene contaminato da batteri che trasformano l’istidina in istamina, o che producono anche putrescina e cadaverina. Quando la quantità di istamina supera i 50-60 mg per ogni 100 g di pesce o carne, il paziente (generalmente senza diatesi allergica) avverte una intossicazione acuta che si manifesta con sintomi gastro-enterici, flushing, orticaria, ipotensione sino allo shock, e che può complicarsi con una SCA da vasospasmo coronarico diffuso.

Nella relazione “Strategia per la riduzione della colesterolemia in prevenzione primaria e secondaria”, attraverso la presentazione di un caso clinico emblematico, è stato seguito il percorso diagnostico terapeutico di un paziente molto comune nella nostra pratica clinica. Totò, diabetico tipo II, obeso, forte fumatore, prima è stato trattato in prevenzione primaria, poi, purtroppo, a causa della scarsa aderenza e del mancato raggiungimento del target di colesterolo LDL inferiore a 70 mg/dl, in prevenzione secondaria, essendo diventato negli anni un polivasculopatico.

 

Francesco Giallauria (Salerno) con la relazione “La gestione della sindrome coronarica acuta nel paziente fragile”, ha posto l’attenzione sulla ‘fragilità’, definita come stato clinico nel quale c’è un aumento della vulnerabilità individuale per lo sviluppo di un’aumentata dipendenza e/o mortalità dopo esposizione a stressor, e può essere fattore causale e prognostico in pazienti con malattie cardiovascolari. I pazienti fragili hanno un’alta prevalenza di malattie cardiovascolari. La fragilità è associata a peggiori outcome a breve termine nei pazienti anziani con SCA, anche dopo angioplastica coronarica, ed il Green score permette una migliore stratificazione del rischio in tali pazienti, che hanno spesso una malattia cardiovascolare più severa. La relazione tra comorbilità e scompenso cardiaco è complessa soprattutto negli anziani fragili e richiede una valutazione multidimensionale, che può darci maggiori informazioni sul possibile beneficio di interventi, che potrebbero rallentare la progressione della malattia cardiovascolare, come la riabilitazione cardiologica, l’esercizio fisico, dieta e supplementazioni, riduzione di terapie non necessarie.

Paolo Calabrò (Caserta) ha presentato un’interessantissima lettura dal titolo  “ Aterosclerosi e placca vulnerabile: terapia di associazione per il raggiungimento del target LDL”, nella quale ha chiarito come gli eventi cardiovascolari siano manifestazioni dell’aterosclerosi, genericamente considerata come una malattia cronica progressiva, caratterizzata da un accumulo di ateroma nella parete arteriosa. Attualmente l’interesse si è spostato dalla placca vulnerabile al paziente vulnerabile ed è riconosciuto che LDL-c sia uno dei fattori di rischio modificabili più importante, coinvolto in ogni stadio della formazione della placca aterosclerotica.Per questo motivo, le LG ESC lo raccomandano come parametro importante per lo screening, la stima del rischio, la diagnosi e come target primario per il trattamento. La regressione della placca è l’obiettivo ideale della terapia ipolipemizzante, perché è stato dimostrato che la regressione dell’aterosclerosi è associata ad una riduzione della morte coronarica. Recenti trial hanno dimostrato, utilizzando l’IVUS, che è possibile ottenere una regressione della placca coronarica con una terapia statinica intensiva, che porti il colesterolo LDL almeno al di sotto di 70 mg/dl. L’abbassamento del colesterolo LDL, infatti, riduce gli eventi cardiovascolari e rallenta la progressione della placca aterosclerotica. Dopo lo studio IMPROVE-IT si preferisce un approccio “multi-target” al colesterolo LDL. L’associazione dell’Ezetimibe 10 mg/die con una dose iniziale di statina, in particolare, può far ottenere la stessa riduzione di C-LDL ottenuta con la dose di statina raddoppiata per tre volte. Le curve dose-risposta per le statine dimostrano che ogni raddoppio della dose di statina riduce il C-LDL di un ulteriore 6%.  L’associazione dell’Ezetimibe 10 mg/die con la dose iniziale di statina ha ridotto il C-LDL in maniera efficace quanto la titolazione della statina alla dose massima raccomandata. Pertanto, l’associazione dell’ Ezetimibe con una statina può fornire un controllo lipidico facile ed efficace rispetto alla monoterapia con la statina somministrata ad un dosaggio per tre volte raddoppiato, perciò viene raccomandato il suo uso anche dalle ultime LG europee.Il PRECISE IVUS trial (che confrontava gli effetti del trattamento con atorvastatina da sola  con quello atorvastatina/ezetimibe sulla regressione della placca in pazienti sottoposti a PCI, pubblicato nel 2015) e lo studio GLAGOV (che ha confrontato l’effetto della sola terapia statinica con quella a base di statina+evolocumab sulla regressione delle placche coronariche, studiate con IVUS in pazienti con coronaropatia sintomatica) hanno dimostrato come il trattamento combinato porti ad un maggiore abbassamento del LDL-C e produca una maggiore regressione della placca in una maggiore percentuale di pazienti rispetto alla terapia con la sola statina.Tali evidenze portano a concludere che le placche vulnerabili sono associate ad un aumento degli eventi cardiovascolari; quando le placche sono esposte a bassi livelli di colesterolo LDL regrediscono; la terapia con statina ad alto dosaggio è in grado di far regredire le placche e determina benefici cambiamenti istologici nell’uomo. Infine, in pazienti con cardiopatia ischemica sintomatica, in trattamento con statina, l’aggiunta di ezetimibe, prima, e inibitori della PCSK9, dopo, induce una regressione della placca con effetti sulla storia naturale della malattia.

 

La terza ed ultima sessione, moderata da Mario Iudicello (Messina), Vittorio Panno (Palermo) e Luigi Scarnato (Palermo) ha affrontato il tema della cardiopatia ischemica con tre importanti relazioni:

Roberto Breglio (Napoli) con la relazione Imaging del danno miocardico e micro-cardiovascolare nelle sindromi coronariche acute: cosa valutare e perché” ha chiarito che il marker meccanico, cioè l’alterazione della contrattilità miocardica, reversibile o permanente, secondaria ad ischemia acuta, rappresenta, di per sè, il solo segno specifico di ischemia, peraltro da valutare nel contesto evolutivo della sindrome. Le complicanze, come disfunzione contrattile, rottura miocardica, pericardite, coinvolgimento del ventricolo destro, estensione ed espansione dell’infarto, trombo murale, aneurisma ventricolare, disfunzione del muscolo papillare ed insufficienza cardiaca progressiva, possono essere rilevate tutte con l’Ecocardiografia. La riserva coronarica, che può essere studiata con l’Eco transtoracico e transesofageo, Doppler  flow wire, PET,RMN, è la capacità che il circolo coronarico ha di dilatarsi in risposta all’aumento delle richieste metaboliche del miocardio. La combinazione dell’esame della cinesi segmentaria del ventricolo sinistro attraverso l’ECO 2D con la valutazione Doppler della RFC, incrementa le potenzialità diagnostiche e prognostiche dell’ecostress con Dipiridamolo. La variazione della velocità di flusso coronarico per effetto di un farmaco vasodilatatore consente di derivare la RFC nel territorio della coronaria discendente anteriore. La riserva coronarica è sicuramente ridotta: in caso di stenosi significative (> 70%) delle coronarie epicardiche e/o deficit primitivi o secondari del microcircolo coronarico. Può essere ridotta per stenosi intermedie (40-70%) delle coronarie epicardiche e/o arteriosclerosi coronarica diffusa.

In uno studio, effettuato da Antonello D’Andrea e pubblicato su Echocardiography nel 2012, si è confermato che nei pazienti con stenosi intermedia dell’IVA con RFC ≥ 2, l’outcome clinico è favorevole. Dal confronto del gruppo di pazienti con RFC ≥ 2 trattati con la sola terapia medica e quello con RFC < 2 sottoposti a procedura interventistica, non sono emerse differenze significative in termini di sopravvivenza e di incidenza di eventi cardiaci. La RFC rappresenta, quindi, un parametro di riferimento adeguato nel management terapeutico dei pazienti con stenosi intermedia dell’IVA.
Numerosi studi hanno posto, inoltre, l’evidenza che diverse classi di farmaci anti-ischemici possono incrementare la riserva di flusso coronarico in differenti popolazioni di pazienti ipertesi. Tali dati sono risultati più univoci per quanto riguarda le classi dei Beta-bloccanti, degli Ace-inibitori e dei Sartani, mentre non sempre concordanti sono stati i risultati con i Calcio-Antagonisti. Certamente la ricerca in tal senso, nonostante abbia posto numerose evidenze in questi ultimi anni, ci propone ancora nuove importanti prospettive di studio, soprattutto sul reale impatto prognostico della CFR nel paziente iperteso.

 

Marco Di Franco (Palermo) ha parlato della “Gestione del paziente post sindrome coronarica acuta” mettendo in evidenza come la mortalità intraospedaliera post-SCA si sia ridotta negli ultimi anni, grazie al miglioramento della gestione del paziente con sindrome coronarica, in fase acuta, e conseguente migliore prognosi a breve termine, mentre si è registrato un incremento della mortalità post-ospedaliera.
E’ ragionevole ipotizzare che l’assenza di un miglioramento nel tempo della prognosi post-ospedaliera dell’Infarto Miocardico Acuto (IMA) sia in parte attribuibile all’inadeguatezza e alla scarsa applicazione di appropriati percorsi assistenziali dopo la dimissione.

Importantissima è la lettera di dimissione, che dovrebbe essere scritta con un linguaggio chiaro e comprensibile, dovrebbe riportare contenuti condivisi con il paziente, diagnosi e decorso clinico, valutazione prognostica, terapia con indicazioni per la titolazione, identificazione del percorso assistenziale e controlli, raccomandazioni per correggere lo stile di vita. Dopo un’opportuna stratificazione del rischio, emodinamico, aritmico ed ischemico, i pazienti a più alto rischio andrebbero inviati ai centri di Cardiologia Riabilitativa, dove possibile. Quelli a rischio intermedio, agli ambulatori di prevenzione secondaria, e quelli a rischio basso, agli ambulatori cardiologici territoriali e ai MMG.

Obiettivi della terapia farmacologica post-SCA sono:

  1. controllo della frequenza cardiaca (con betabloccanti e/o ivabradina, per lunghi periodi, verosimilmente per sempre),
  2. prevenzione del rimodellamento (con ACE-inibitore o sartano, somministrati precocemente e titolati al massimo dosaggio tollerato, e antialdosteronico, se persiste disfunzione sistolica del VS),
  3. prevenzione della restenosi/trombosi, con gli antiaggreganti (ASA, 75-100 mg, in tutti, se non controindicata, un nuovo inibitore del recettore piastrinico P2Y12 in associazione, al più presto possibile e mantenuto per 12 mesi. Da preferire il clopidogrel nei pazienti che devono assumere vecchi e nuovi anticoagulanti orali. Si raccomanda di valutare il prolungamento della DAPT dopo i primi 12 mesi di terapia nei pazienti con infarto e ulteriori fattori di rischio (età>65 anni, diabete, insufficienza renale cronica, malattia multivasale, precedenti infarti),
  4. controllo dell’assetto lipidico (con dieta, attività fisica e farmaci ipolipemizzati)
  5. trattamento dell’ischemia residua (con betabloccanti e/o calcioantagonisti e se non tollerati o controindicati con ranolazina e/o ivabradiva).

Importantissima l’aderenza terapeutica, che va verificata utilizzando anche strumenti specifici, perché riduce la mortalità e le nuove ospedalizzazioni e, quindi, i costi.

 

In conclusione dei lavori Peppino Calcaterra ha presentato la relazione “La malattia coronarica cronica stabile: cosa c’è di nuovo?” riportando i risultati del trial ORBITA, elegante studio randomizzato in doppio cieco volto a valutare gli effetti sintomatici dell’angioplastica coronarica percutanea (PCI) in pazienti con angina stabile, pubblicato su Lancet nel 2018. Novità assoluta di questo studio è stata quella di introdurre per la prima volta un controllo placebo della PCI, rappresentato da una “finta” procedura.
Sono stati arruolati 230 pazienti con angina stabile ed aterosclerosi ostruttiva monovasale con indicazione alla rivascolarizzazione coronarica percutanea, secondo le attuali linee guida. Dopo la coronarografia, sono stati registrati i questionari sull’angina e la qualità di vita, e sono stati eseguiti test da sforzo cardiopolmonare ed ecocardiogramma da stress con dobutamina. E’ stata impostata terapia medica anti-anginosa, scrupolosamente titolata durante un periodo di 6 settimane, e duplice terapia antiaggregante piastrinica. Dopo questa fase di run-in, 200 pazienti sono stati risottoposti a coronarografia, con studio della fisiologia coronarica mediante FFR ed iFR, e randomizzati a PCI o placebo, costituito da una “finta PCI”, in cui il paziente rimaneva nella sala di emodinamica sotto sedazione, con isolamento acustico garantito da auricolari, e con cateteri coronarici rimossi, senza che si fosse proceduto ad alcun trattamento. Il personale di reparto ed il paziente non ricevevano alcuna informazione circa il tipo di procedura eseguita. I pazienti sono stati rivalutati dopo 6 settimane, con ripetizione degli esami eseguiti all’arruolamento. I risultati hanno evidenziato che la PCI non ha migliorato significativamente l’end-point primario, costituito dal tempo di esercizio, e neanche i punteggi dei questionari, il Duke treadmill score o il picco di consumo di ossigeno, ma ha invece migliorato in modo significativo il wall motion score index all’ecostress, confermando l’efficacia nel ridurre il burden ischemico.

In conclusione, in questo studio la PCI non ha dimostrato migliorare in maniera significativa rispetto al placebo la sintomatologia e la performance di esercizio di soggetti con angina stabile. Per quanto di modeste dimensioni campionarie e limitato follow-up, questo studio per l’estremo rigore e l’ingegnosa metodologia con cui ha concepito una PCI placebo, è destinato a diventare un landmark trial della letteratura scientifica, viziata per oltre 40 anni a partire dalla esecuzione della prima angioplastica coronarica, da un grave errore primordiale: la mancanza di controllo, in cieco con placebo, dei risultati emergenti dal trattamento percutaneo. Questa mancanza chiaramente potrebbe aver influenzato i risultati dei precedenti trial, rendendo il paziente più rassicurato e quindi più “pronto” ad eseguire uno sforzo fisico, quando reso a conoscenza di essere stato sottoposto ad una rivascolarizzazione, concetto chiaramente emerso dopo l’interruzione precoce del FAME-2. Gli autori dell’ORBITA hanno fatto si che si potessero, per la prima volta, isolare gli effetti della rimozione meccanica della stenosi coronarica sulla capacità di esercizio e sui sintomi, rischiando, quindi, di far cadere anche l’ultimo mito a favore dell’angioplastica, cioè la sua presunta superiorità nei confronti della terapia medica su sintomi e qualità di vita.

 

La maggior parte delle relazioni sono consultabili e scaricabili dal sito www.ancecardio.it nella sessione slidebook.